Fidā’ Hammāmī ricorda ancora i giorni della rivoluzione: «All’inizio, per noi attivisti era una frustrazione! Le proteste erano al sud, non nella capitale, sentivamo della violenza ma non potevamo fare niente. A Tunisi si erano preparati a fronteggiare eventuali proteste, ma l’informazione era limitata, i mezzi audiovisivi avevano imposto il black-out, e quindi utilizzavamo solo i media sociali. Temevamo che la cosa morisse sul posto, come era successo nel 2008, quando schiacciavano ar-Rudeyyef (Gafsa) e non ne sapevamo nulla [n1]».
«Quando hai percepito che le cose sarebbero state diverse?» le chiedo. «Quando la protesta si è propagata nelle grandi città, come lo sciopero generale organizzato a Sfax e a Qayrawān. Abbiamo allora capito che la gente comune e non solamente gli attivisti e l’élite erano usciti in strada, indignati per l’uso delle armi e gli assassinii. Poi, finalmente, la protesta è arrivata nella capitale, dove i dimostranti uscivano di notte ed attaccavano le stazioni di Polizia, ed abbiamo capito che le cose erano cambiate».
Molti considerano che i media sociali abbiano fatto la rivoluzione, ma secondo Thāmer Mekkī, un giovane giornalista online, non è proprio così: il virtuale è stato piuttosto uno specchio della realtà. «Il contributo della Web alla rivoluzione tunisina è stato duplice. Innanzitutto è servito come mezzo informativo alternativo in un contesto dominato dalla propaganda, sia tra le testate pubbliche che quelle private, che ottenevano l’autorizzazione a lavorare se vicine al regime. Dunque la sola alternativa era di sbarcare sulla Web; è questo che ha dunque infranto il black-out governativo». La rivolta del 2008 nel bacino minerario di Gafsa, ad esempio, venne coperta da una rete di bloggers. Con un blog, tuttavia, non hai la stessa visibilità di altri mezzi; devi aprire il blog, alimentarlo con regolarità, e aspettare che i destinatari cerchino i tuoi contenuti. Quando sei su Facebook, invece, puoi postare un articolo o un video e immediatamente il contenuto arriva ai destinatari. «È questa la differenza che vi è stata tra Gafsa e il dicembre 2010. Nel settembre 2008, vi erano in Tunisia 28.000 profili Facebook. Nel dicembre 2010, ve n’erano quasi due milioni [n2], ovvero un quinto della popolazione tunisina! Fare circolare l’informazione era dunque molto più semplice». Thāmer cita l’agenzia tunisina di Internet ATI, secondo cui il numero di persone che dispongono di un collegamento ADSL sono aumentate tra 2008 e 2010 del 150%: l’accessibilità dello strumento tecnologico ha fatto la differenza, come il fatto stesso che con un cellulare si possano ora riprodurre e mandare delle immagini. Sotto il regime, YouTube era censurato, così come DailyMotion e altri sistemi di condivisione di immagini, ma questo non ha impedito il fatto che con la società dei consumi, facendo sì che tutti debbano avere telefoni con molte funzioni, tutte queste persone siano diventate dei giornalisti autodidatta, che possono produrre del materiale e circolarlo attraverso i media sociali. «Il secondo aspetto è che diffondere dell’informazione significa anche condividere una coscienza collettiva comune e preparare alla mobilitazione. Come? Veniva lanciata una pagina-evento, e creata una rete attorno ad essa, uno spazio di azione politica virtuale. Con Facebook, si è riconquistato lo spazio pubblico, perché gli spazi di dibattito su Facebook sono stati seguiti da pagine-evento che invitavano alla mobilitazione». Thāmer conosce bene la rete. Classe 1986, ha scritto fin dal 2008 nella blogosfera su giornali come Tekiano. com, Kapitalis.com o Babelmed.net. «Molti mi considerano un cyberattivista, e quando mi dicono questo rispondo che è un mio dovere di cittadino, niente di più». In Tunisia, i cyberattivisti si ispiravano ad una teoria semplice: spingere. «Non ci preparavamo a una rivoluzione, spingevamo piano piano per forzare i limiti, e quando vi ci avvicinavamo, il potere diventava più sanguinario. All’inizio volevamo solamente rimuovere la censura sulla Web» precisa Thāmer.
È una battaglia che era iniziata anni prima. L’ultima campagna, nata nell’aprile del 2010, si chiamava Sayyb Sālah, Lascia stare Sālah, ovvero un’espressione popolare per dire: «Lasciaci in pace!». La protesta consistette nel pubblicare sulla rete centinaia di foto di internauti con un cartello bianco che riprendeva lo slogan della campagna. L’apparato della censura veniva chiamato “‘Ammār 404”, in ricordo del messaggio 404 Not Found che appare quando il sito Internet richiesto non esiste. Rappresentava la lotta tra ‘Ammār il censore e Sālah il cittadino semplice. E questo combattimento non è stato vinto che la sera del 13 gennaio 2011. Ben ‘Alī non aveva capito che, forzando i limiti pure lui, avrebbe fatto crollare la baracca. Quella sera, durante il suo ultimo discorso, cancellò la censura ed aprì tutti i siti Internet, ma era troppo tardi: vi erano già stati trecento morti e non si poteva più tornare indietro. «Promise la libertà di stampa, il rispetto dei diritti umani, che non si sarebbe più presentato alle elezioni presidenziali del 2014, che avrebbe autorizzato tutti i partiti considerati illegali fino ad allora, ecc. Allora su Internet abbiamo cominciato a far circolare il messaggio: “Non cediamo fintanto che il sangue dei nostri martiri continua a essere versato”».
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Note
[n1] La regione di Gafsa, una zona mineraria ricca di fosfati, è interessata da una forte disoccupazione. Negli ultimi tre decenni, la CPG, la società pubblica di sfruttamento minerario, aveva ridotto la sua forza-lavoro da 14.000 a 5.000 operai. Una rivolta popolare scoppiò nel gennaio del 2008, quando la CPG produsse una lista di nuove assunzioni che favoriva persone fedeli al governo e a quadri dirigenziali del sindacato locale, dopo che le assunzioni erano rimaste bloccate per sei anni. La polizia tenne sotto assedio la città per ben sei mesi, arrestando militanti e sindacalisti come Beshīr La‘bīdī o ‘Adnāne al-Hajjī. A causa della violenta repressione (tremila poliziotti in una località di venticinquemila abitanti) e della censura mediatica, le proteste non si diffusero altrove.
[n2] «Nel 2008, Facebook non era per niente conosciuto, soprattutto nelle nostre località povere». In effetti, meno di trentamila tunisini erano su Facebook quando ar-Rudeyyef esplose. Prima della fine del 2010, il paesaggio di Internet in Tunisia era già un’altra cosa. Un’indagine effettuata nel gennaio del 2011 rivelò che la Tunisia, un Paese di dieci milioni di abitanti, aveva 1,97 milioni di utenti Facebook, il 18.6% della popolazione totale e il 54.73% dei suoi utilizzatori online. Questa esplosione di Facebook fu il risultato della manomissione dei mezzi di informazione tradizionali da parte del regime. Cfr. R. Farjāny, T. Mekki, Révolution et contre-révolution en Tunisie: le virtuel miroir du réel, in revue-medias.com, autunno 2011. Vedi anche: revolutionaryarabrap. blogspot.com.
(capitolo: Siamo cittadini, dunque militanti – ebook)